LA CRITICA

“Chi vuoi capire le opere di Nicola Gambedotti non si illuda di poterlo fare con un  semplice, affrettato sguardo, né creda di coglierne l’essenza sottoponendole a un esame superficiale. Se, dunque, ne vuole intendere l’intimo significato sarà neces­sario che si soffermi dinnanzi a esse per qualche istan­te, che scruti fra le righe della rappresentazione, che identifichi i vari, spesso trop­po numerosi oggetti, riporta­ti sulla tela.

E’ questo, senza dubbio, il segreto per entrare nel mondo fantastico, quasi surreale dell’artista, per raccogliere l’invito  alla   prosecuzione   di un   tema   che   lo  stesso   ha iniziato già nel momento del concepimento della sua ope­ra.  Si  tratta  di  una  caratte­ristica rara, o meglio, comu­ne  soltanto  agli  artisti  veri, degni   di   tale   nome   per   la concezione   tutta   particolare che hanno dell’arte vista co­me unico, valido stimolo per aprire  un  discorso  sia  pure contraddittorio con l’osserva­tore. Un dialogo ad ogni mo­do  che  lasci  alla  cultura  e alla   sensibilità   di   ciascuno il compito di trarne le debite conclusioni.

Nato a Urbino quarantatrè anni or sono, ha iniziato la sua attività nel campo della xilografia continuando lo svi­luppo dei suoi temi preferi­ti con la pittura. Un passag­gio avvenuto senza forzatu­re perché spontanea conse­guenza di una esigenza sca­turita dal desiderio di conferire alle figure un cromati­smo e una vita che la sem­plice impressione di uno stampo, anche se sapiente­mente inciso, non era in gra­do di conferire. Figure di cavalieri che richiamano al­la mente, nel medesimo istante, la serena compostez­za contenuta nelle opere di molti quattrocentisti e la sug­gestiva, quasi istrionesca, at­mosfera di un’epoca recente o, addirittura, appartenere a un futuro ancora lontanissi-mo, nobili signori dal tratto austero, dagli abiti di foggia antica, con strani copricapo che nulla hanno di umano, ma che proprio per questo ben sintetizzano il dramma della esistenzialità dell’es­sere. Passato e futuro, dunque, si fondono nella ispirazione del Gambedotti con un pro­cedimento suggestivo non certo privo di tormento co­me tormentata è la vita del­l’uomo. Una creatura vittima dei suoi eterni difetti, dei suoi insanabili (almeno ap­parentemente) mali, delle sue passioni divoratrici. Una commedia nella quale i due maggiori protagonisti sono l’essere e il tempo in un alternarsi di sensazioni, dove l’ultimo atto si riallac­cia al prologo con un pro­cedimento conseguenziale, monotono, capace pure di mettere in luce la profonda amarezza provata dall’artista nel rappresentare una realtà in continua, ma soltanto illusoria, evoluzione”.

GIOVANNI DE CARLO (1974)

“Subito nella sua pittura si ha il senso dell’architettura del Rinascimento, si avverte l’atmosfera umana del Cinquecento, ma anche il demoniaco, fantastico mondo di Bosch e Brueghel.  E come in De Chirico, anche nei quadri di Gambedotti si nota un certo effetto attraverso il confronto dei contrasti e del contenuto delle forme Per lui è la forma umana che, chiusa disgregata e quindi, con l’ausilio di pezzi da costruzione, ricostruita e perciò rimossa nel proprio movimento, prende coscienza di se stessa e della propria libertà, agendoin un proprio motivato scenario. Strani utensili vi sono in essi contenuti, anche il paesaggio è manipolato a questa guisa, dove le masse si intersecano, i quadrati scavano Astrusi corpi volanti occupano il cielo, l’epoca della tecnica viene qui portata fino all’assurdo. In tutto questo si trova l’uomo. Ecce homo! Un uomo, oppure strade o vicoli. Il suo aspetto, in particolare nel viso, è duro senza individualita

I volti degli uomini di Gambedotti sono mascherati, sono il prodotto di una massa senza caratterzzazioni.  Solo i maschi si riconoscono, uomini maschi, con elmi, cinture, o ingioiellati con attrezzi da lavoro di ogni genere, o da soli o in gruppo, ognuno non ha niente a che fare con l’altro, appare comunque isolato. Gambedotti dipinge minuziosamente, senza pasta e le diverse campiture vengono trattate alla maniera del graffito, realisticamente e minuziosamente riporta cosi la supercivilizzazione in una nuova barbaria. L’orrendo, l’inumano non viene però fatto trapelare e si vede in dettagli terrificanti Gambedotti ci dà la sua visione in modo chiuso compatto in enigmi che vogliono essere svelati, nell’estraneamento della cosa, in forme ripetute penetranti. Cosi compaiono, quasi come motivo conduttore in ogni quadro, tubi in forma di uccelli volanti, strumenti, quali bastoni che possono essere mitragliatrici allo stesso tempo, ratti infine nelle zone inferiori dei quadri il curioso, lo strano, è sempre al centro di  questa  moderna  pittura. L’idea diventa  quadro,  senza intenzioni letterarie. L’espressione di Gambedotti e tutta da vedere”

FRIEDHELM ROTTGER (Dalla presentazione  in catalogo in occasione della  mostra alla Kunstgaiene Esslingen, Stoccarda, 1975)

“Nicola Gambedotti sarà anche un pittore «fantastico» o del fantastico: ma quale artista che voglia sottrarsi alla indifferente ripetitività dell’artigiano non lo è? Accettiamo dunque questa definizione, ma in termini generali, sì da toglierle ogni significato che vada oltre quello di una rivendicazione di libertà espressiva rispetto ai lacci e ai gorghi delle poetiche e delle tendenze in cui s’è storicamente irrigidita la nostra e l’altrui storia dell’arte, e che oggi han fortunatamente perso forza costrittiva per qualche merito dell’idea postmoderna. Voglio dire che il «fantastico» praticato da questo urbinate che sembra aver avuto a precettori i maestri di tarsia dello studiolo di Federico da Montefeltro e per congeneri i più irridenti diabolici di età fiamminga, ha ben poco a che fare con i codici di quella sorta di surrealismo chiromantico (da gatti neri) su cui si sono esercitati, e si vanno ancora esercitando, gli italici perlustratori di un profondo che non va al di là dell’allegorismo superficiale dei «Surfanta». Giustamente Michele Prisco ha aperto un saggio su Gambedotti parlando di «apparente ieraticità» dei suoi personaggi: io direi anche «apparente ieraticità» del suo linguaggio e delle soluzioni propriamente grafiche e pittoriche nelle quali la misura intellettuale è tanto tesa da escludere, almeno quanto la si può escludere in opera d’arte, la vertigine dell’irrazionale gratuito, riportandosi all’equilibrio tutto moderno della contraddizione quella che io definirei l’ineluttabile fantasticheria della realtà, piuttosto che realismo del fantastico.
Per uscir d’esoterismo, occorrerà tenersi fermi alla logica dell’immagine di Nicola Gambedotti, che mi sembra essere soprattutto una logica della illusione e della teatralità. L’arte è sempre illusoria ma, come dice Gombrich, noi amiamo essere ingannati fino a quando siamo consapevoli dell’inganno. L’immagine grottesca, temporalmente e spazialmente sfalsata, astorica, di Gambedotti garantisce, proprio con la sua stranita presenza, che l’inganno non viene consumato e solo l’illusione, la magia senza potere dell’arte, resta. La sua verità è proprio nella sua finzione consapevole che ci fa consapevoli. Accade qui esattamente come a teatro – che altro, se non «teatro» sono le scene e i personaggi di cui Gambedotti popola le sue città, i suoi ambienti, i suoi circhi? – dove la finzione presenta se stessa appunto come finzione allusiva e illusiva rispetto alla realtà. È quindi una coscienza del tutto moderna quella che muove il «medievalista» Gambedotti. I suoi personaggi si scoprono naturalmente come personaggi d’una mise en scène retta dall’artifizio, fatta appunto «ad arte».
Per rendere più chiaro quanto vado scrivendo potrei richiamarmi alle ricerche di psicologia della forma che portarono Escher ai suoi studi sulla prospettiva reversibile, il che voleva dire che anche in pittura i volumi giocano in termini di ambiguità sulla superficie piana, cosa che già nelle stampe del Piranesi poteva essere rilevata. A questi due maestri io ricondurrei le scelte formali, che sono ovviamente anche di contenuto, che portano Gambedotti all’esito razionalmente immaginario di tante sue opere ove non v’è dominio del protagonista ma della scena, come avviene nelle straordinarie soluzioni adottate per la impeccabile serie dei Circhi tutti retti sul principio delle architetture impossibili, che è lecito disegnare ma che sarebbe vano tentare di costruire realmente. A questo punto mi pare ovvio l’invito da farsi allo spettatore, chiamato ad esaminare queste complesse architetture d’immagine, a considerare quanto di concettuale vi sia in esse. Ci si accorgerà facilmente che ve n’è in misura almeno pari a quella del fantastico, anzi che ciò che vi è qui di fantasia si esprime in forma concettualmente percepibile e viceversa. Al punto che sarebbe oziosa e vana esercitazione tentare decodificazioni che finirebbero per far perdere proprio ciò che di specifico vi è nell’opera di Gambedotti, quella struttura unitaria e ambigua dell’immagine che sola può consentire che il segreto dell’arte non venga penetrato e che l’opera resti protetta e avvolta in quel mistero per cui l’ammiriamo e la diciamo «inesprimibile» e intraducibile.
Non vorrei però limitare a questa dimensione dell’ambiguo-reale la lettura dell’opera di Gambedotti, ignorando il carico di simboli e di metafore che vi si raccoglie e che si esprime nella vasta congerie di iconografie traviate: guerrieri e uccelli, corazze e graticole, scettri e stendardi, aquiloni e carri sfasciati, falci e carrucole, insomma tutto l’armamentario del grottesco universale portato a far scena in una dimensione che se non fosse, come dicevo, teatrale sarebbe metafisica. Ma metafisico Gambedotti non lo è mai, o quasi mai, se si considera, ma staccata dal generale contesto, un’opera come la Natura morta con frutta del 1980 in cui appaiono le stimmate del Novecentismo italiano più innamorato di Cézanne. Esatto forse sarebbe un riferimento alle prove dell’arte dei «canti acuti» che trionfò con la tarsia in forme talmente alternative alla pittura da renderla illeggibile per chi aveva la pretesa, come il Vasari e tutta la critica almeno fino a Roberto Longhi, di ricondurre questa disciplina ai canoni che della pittura son propri. La mia non è solo una divagazione se è vero, come credo, che Gambedotti non sia stato insensibile agli alti esempi urbinati a cui ho accennato all’inizio. Ecco allora un’altra fonte per le gotiche geometrie di cui liberamente s’avvale l’artista per costruire scenografie immaginate, e quindi ovviamente immaginane.
V’è un ultimo punto che non vorrei trascurare, anche perché intorno ad esso s’è prevalentemente esercitata l’analisi degli studiosi che si sono occupati fino ad ora di Gambedotti, ed è la questione del messaggio umano che si esprime attraverso i modi di un racconto ambiguo e caotico fin che si vuole ma certamente teso all’essenziale, lo credo che vada sottolineata più che la componente ideologica quella ironica, intendendo con questo termine comprendere il senso, a volta rabbioso, a volte dolente, del «distacco» che l’artista opera nei confronti della propria immagine che ormai vive come cosa «altra» e in un altrove. L’ironia presuppone interesse, forse amore, ma certamente esclude il grido e il sarcasmo. Ecco perché le grandi scene immaginate da Gambedotti vivono in una sorta di stupore e di silenzio. Ecco perché in esse v’è assai più di dolore che di condanna e di denuncia.
Non spetta all’artista ergersi ad arbitro di un giudizio universale che può invece mettere in scena, dipingere come un momento del grande teatro dell’umano (che comprende il subumano e il sovrumano) perché altri giudichi, mi sembra tanto consapevole Gambedotti della sua scelta di teatralità che io proporrei di scegliere come emblematica di tanto suo lavoro, e come più convincente approdo di una ricerca ormai non breve, proprio la serie dei Circhi posti sullo sfondo di città che hanno esse stesse per sfondo il circo, in una compenetrazione di piani prospettici e di elementi scenici talmente rigorosa da imporre, come segno del gioco dell’ambiguità dichiarata, il motivo centrale e ripetuto della quinta da palcoscenico: che qui indica la dannazione dell’artista all’inganno consapevole e la sua ineliminabile inquietudine di veggente al di là della scena che egli stesso descrive”.

FRANCO SOLMI (1983)

“Che cosa si nasconde dietro l’apparente ieraticità di questi personaggi di Nicola Gambedotti ? E, innanzi tutto, chi sono questi personaggi di Nicola Gambedotti?  Sembrerebbero, a pri­ma vista, degli armigeri, chiusi, come sono, e quasi murati, in una serie di solide e geometriche bardature che hanno la so­lenne pesantezza delle gualdrappe, i volti quasi trapezoidali che appena emergono dal sottogola di strani copricapi, le ma­ni dalle nocche fortemente sbalzate, grandi, dure, nodose e squadrate fatte — si direbbe — per impugnare più volentieri un’ascia che un fiore: ma poi a osservarli meglio ci si accor­ge che le loro espressioni sono attonite, o spiritate, o addirit­tura sgomente, e spesso rassegnate, e insomma non ci vuol molto a capire che non hanno nulla della marzialità dei guer­rieri, e semmai appartengono a un’atemporale (nonostante quel clima medioevaleggiante che li circonda) « armata Brancaleone » patetica e inoffensiva.

E allora diciamo che sono solo, più semplicemente, delle creature umane, e che probabilmente la singolarità dei loro cimieri (se si tratta di cimieri) così come l’illusoria imponen­za delle loro armature (se si tratta di armature) che li asso­miglia a una specie di preistorici o storici marziani catapul­tati dalla fantasia dell’artista nel nostro mondo, serve unica­mente da protezione: a nasconderli, o ripararli, dalle insidie esterne, a porre un argine — non si sa quanto efficace — alla eventualità di un’offesa o d’una provocazione o d’un raf­fronto che possa venire proprio dal mondo esterno a colpirli.  Sono, in altre parole, dei poveracci, diciamo pure dei disere­dati, che, senza spocchia, accettano quasi di buon grado la stessa connotazione grottesca con cui l’autore ha voluto affet­tuosamente coglierli e fermarli sulla tela, riuscendo anzi a ca­povolgere i canoni del « genere » in una dimensione e misura di più dolorosa e scoperta umanità.

Ci sembra questa la chiave di lettura dell’universo fanta­stico in cui si muove Nicola Gambedotti. Marchigiano, di Urbino, al cui celebre Istituto d’Arte ha studiato e s’è formato inizialmente come incisore (e ne porta tuttora, quasi vistosa­mente, le stimmate), Gambedotti è vissuto alcuni anni in Sar­degna prima di trasferirsi a Napoli dove attualmente vive. E si direbbe che questi tre paesaggi — non soltanto geografici, soprattutto interiori — attraverso i quali è passato, abbiano non appena influito sulla sua poetica d’artista ma lasciato il segno persino sui moduli espressivi con cui quella poetica è affrontata e svolta.

Di Urbino, e delle Marche in genere, è la dolcezza archi­tettonica di certi fondali: la sognante e sinuosa curvatura del crinale dei colli che sfumano verso l’orizzonte come la seve­ra e un po’ teatrale compattezza dei cortili e delle piazzette rappresentanti come una sorta d’ideale scenografia da com­media dell’arte; e della Sardegna è quel senso arcaico e mi­tico a un tempo di un mondo chiuso sin nell’impenetrabilità dei suoi costumi e che risponde con il silenzio e la fierezza ai colpi della cattiva sorte e con l’isolamento alla prevarica­zione della curiosità altrui; e di Napoli, infine, il gusto del-l’assemblage, una più colorita e, se si vuole, espansiva com­piacenza alla rappresentazione di un’allegria che, al contra­rio, maschera o in ogni caso cerca di vanificare le ingiurie della miseria e si atteggia spesso nei toni e nelle movenze della ballata popolare quando non in quelli di una più agra e movimentata «opera dei pupi».

Di suo, Gambedotti vi ha aggiunto intanto, in una con la pazienza quasi artigianale e probabilmente caratteriale del suo far pittura ed essere uomo, quell’attitudine al tratto deforman­te che però, s’è accennato, non è mai dileggio quanto piutto­sto un sentimento di partecipazione umana spinta ai limiti del­la connivenza; e poi il piacere sin provocatorio d’esibire se non il bagaglio della sua cultura almeno quello delle sue « af­finità elettive », da Piero della Francesca a Breguel il Vec­chio e finanche a Bosch: e una istintiva preferenza alla sim­bologia (la lumaca emblema d’un tempo che scorre ma non muta nulla; gli uccelli anticipo di più mostruosi e feroci vo­latili lanciati dall’uomo a solcare i cieli): e, soprattutto, quel modo ch’è solo suo e tutto suo di «incidere» il colore, di graf­fiarlo e scarnificarlo — si direbbe che usi il bulino più che il pennello —, conferendo così ai rapporti cromatici un con­trassegno che mescolandosi al rigore compositivo dei singoli quadri caratterizza la sua pittura con un’impronta tanto per­sonale e suggestiva.

…Chi dice che la fantasia non ha più diritto di cittadinanza nella società che viviamo? Gambedotti ce ne offre la più ru­tilante smentita. Di più: artista del suo e nostro tempo, della fantasia egli ha fatto non tanto o non soltanto la sua sigla ma la sua poetica, e ce la propone come una specie di estre­ma Thule o di ultima spiaggia, rifugio e insieme miraggio del­l’uomo d’oggi sempre più succube, in un mondo che non ha più sicurezze e certezze, dell’avanzata tecnologica e sempre più vittima dei fanatismi della violenza”.

MICHELE PRISCO (1985)

“Presentare Nicola Gambedotti al pubblico di casa nostra non significa ubbidire soltanto ad una ferrea legge di mercato che impone, oggi più che mai, operazioni d’immagine a vasto raggio.
Significa soprattutto chiedere alle grandi personalità dell’arte la loro visione del nostro tempo, le loro soluzioni alle problematiche dell’uomo. È un po’ come rubare dal cuore e dalla mente di questi uomini percettivi e recettivi la loro visione del momento storico che viviamo.
Perciò mi piace continuare a proporre queste visioni ispirate agli amici della galleria, agli intellettuali, alla gente che ama l’arte non solo come dimensione estetica ma come espressione di vita vera, quella che tutti conosciamo, come bella, tragica, avventurosa, felice, dolorosa, vitale e mortale. Di questo ci parlano i grandi e l’umanità ha sempre avuto bisogno della loro voce per guardarsi dentro. Con Nicola Gambedotti abbiamo un’ennesima chiave di lettura di questa realtà umana tanto antica e sempre tanto misteriosa.
[Dai cataloghi Mostra Personale – Galleria Botero Arte Contemporanea Pescara, marzo 1997  e Mostra Personale “Passato, presente e futuro” Comune di Roccaraso, gennaio 1997 ]

FRANCO PINCELLI – Direttore della Botero Arte di Pescara (1997)

“Scenari medievali di vaga ambientazione nordeuropea, arricchiti di impercettibili elementi di contaminazione moderni. E’ il mondo fantastico, satirico, del sacro e del profano; l’agognata violazione dei confini spazio-temporali dell’artista Nicola Gambedotti, pittore di Urbino, ma da lungo tempo residente a Napoli dove ha insegnato presso l’Istituto d’Arte.

Le opere di Gambedotti si caratterizzano tutte per le proprietà di una sorta di “quarta dimensione”; quella narrativa. Le sue raffigurazioni, lungi dal cogliere situazioni statiche, si presentano come storie complete, con un inizio, uno sviluppo e un epilogo; leggende che l’artista racconta su tela utilizzando il pennello con la stessa maestria con la quale un buon narratore userebbe la penna. «Le creature gambedottiane – ha scritto di lui il professor Adolfo Giuliani – si inquadrano in una sorta di continuità storica dell’uomo, che, senza mai perdere di vista le istanze contemporanee, sia garante di una comunicazione mai interrotta col passato e aperta a suggestive ipotesi di dialogo futuro». Secondo il critico Corrado Marsan, nella pittura di Nicola Gambedotti si coglie la legge, inalterabile, della “reversibilità del reale”; tanto del reale nel suo specifico quanto dell’allusivo e illusivo “reale immaginario”.

DOMENICO RAIO (Da La Verità del 21 febbraio 1999)

“Si fa presto a dire surrealismo. Certo, liquidare il caso Gambedotti, con una bella etichetta: surrealista — trattare con cura (uomini, armi, bagagli provenienti dagli spazi siderei del nostro onirico quotidiano, tecniche e verità del sogno, simbologie del mito) è cosa facile. Tanto più che impressionante è la tecnica con la quale queste narrazioni sono tramate e meravigliante è il ricorso ad una continua ironia narrativa, per cui il gesto descritto risulta per mano del surrealista napoletano già analisi dissacrante del gesto formale.  Il dipintore, per intenderci, non solo descrive situazioni impossibili nel tempo e nel luogo ma ne offre una sorta di traslato ironico, ove i primi a trarne vantaggio dalla versione seriosa sono proprio i personaggi e i luoghi immaginati.

E qui viene d’obbligo, aumentando così il carico interrogativo che ci accompagna, dire quanto sia segnale di maturità culturale il raccontare in chiave di non voluta epicità questa sorta di chanson des gestes di uomini e di cose che dopo un defaticante viaggio indietro nel tempo, raggiungano la tela, terra promessa (alle loro gesta seriose, appunto) e che qui vi trovino, meraviglia delle meraviglie, i resti di altre “civiltà divenute” con lo scorrere del calendario.

Ed il viaggiatore di cose d’arte ha certo seguito, sin dagli anni Sessanta, il giovane artista di nome Nicola Gambedotti, per meglio sapere come avviene, quando avviene e perché avviene questo transfert nelle ucronìe e nelle utopie dell’accidentato circostante simbologico. La risposta che ne ha avuto è stata illuminante certo, ma non tanto da accendere la luce su tutto il camminamento dell’operazione artistica, che in Gambedotti ha dei tratti di superficie ma anche dei camminamenti sotterranei che l’artista compie ogni giorno nella sua “isola di terra” mentale, per raggiungere i suoi personaggi.

Per cui il lettore di queste note è invitato cortesemente a soffermarsi con estrema attenzione sulla decriptazione delle opere: questo intramare armi e cavalieri, questo evocare dame e amori, questo offrire a esseri e oggetti la ieratica epopea dell’ istrionismo. Niente da più chiaro che il silenzio della storia. Ci piace quindi ancora pensare al giovane dipintore, che pure vive normalmente le crisi e le delizie del nostro reale quotidiano, e che trasla il vissuto in illo atempore, disseminandone le icone lungo itinerari di terre lontarnssime, dietro l’angolo del nostro inconscio.

Ma è giusto dire che l’atmosfera astorica che si respira nelle tele di Gambedotti conduce i comprimari e le oggettazioni posti sulla scena a recitare un giuoco delle parti, come una sorta di commedia ispirata dalle parole di un certo Andrè Breton, quasi che gli astanti, come una quinta colonna, si possano alfine ritrovare, oltrefrontiera, nei territori occupati con le armi dalla fantasia. “Siate realisti, cercate l’impossibile“. Si dice già nel “Primo manifesto surrealista”. 1925. Scusate il ritardo”.

DONATO CORRENA (Dal volume: “Ricambio generazionale. Dopo il Novecento” – Mediapolis Editori 2002)

“Un processo lungo, per molti aspetti esasperante, che viene portato avanti proprio utilizzando gli strumenti più tipici dell’acquaforte, dalla puntasecca al raschietto. Gli esiti, di inconfondibile fisionomia, sono tra i più intriganti suggestivi delle ultime stagioni, e certamente costituiscono una felice invenzione di Nicola Gambedotti. Il quale, in quanto a contenuti, ha popolato le sue opere di eroi, miti e leggende variamente ispirate alla storia di ogni tempo e di ogni luogo: dall’armata Brancaleone al mondo classico, dall’età dei cavalieri e dei castelli alle corti rinascimentali. E poi l’inferno di Dante, interpretato da venti stupefacenti tavole, e il mondo del circo e ancora quello di Don Chisciotte, fino ai più recenti cicli a mezza strada tra lucido e fiabesco: I Mangioni, I Proverbi, I Frati, Le Carte da gioco, Il Gatto con gli stivali, La Principessa sul pisello.  Un mondo di straordinaria immaginazione reso attraverso una folla di meccanismi e di personaggi, la cui matrice ha la freschezza delle fantasie infantili e l’ironia della maturità”.

NINO D’ANTONIO (Dal catalogo Mostra Personale – Castello Brancaleoni – Comune di Piobbico – luglio 2003)

“A dieci anni dalla sua scomparsa, Nicola Gambedotti ci parla ancora attraverso le sue tavole, i suoi personaggi, le loro armature, i loro cimieri. Una ballata popolare fatta di armigeri, di mani che si allungano e si tendono, di nature morte in primo piano. Dentro, come suggerisce Michele Prisco, convivono le realtà della sua vita. Urbino, la sua terra natia, quelle dolci scenografie costruite dalla sinuosità dei colli. La Sardegna , il suo isolamento arcaico e quei costumi della festa quasi immutabili, perfettamente calati nel suo passato. Napoli, la sua miseria, la sua vivacità, i toni e i colori nuovi di una città solare dove dietro l’ apparente allegria si celano storie inquiete ed enigmatiche.
Gambedotti e la sua fantasia. Una galleria di storie fantastiche, misteriose, oscure che ci riportano indietro nel tempo. Un percorso che idealmente si lega a Piero della Francesca, a Bosch, perfino a Bruegel il Vecchio, in un rimando di simboli che si muovono negli intrecci di una cultura antica ma sempre attuale.
E, poi, una tecnica arcaica e remota, l’ incisione che scolpisce la tavola come una scultura, quell’ acrilico bulinato che ne fa un maestro anche sul piano artigianale. Delineando sagome, geometrie, un piccolo esercito confuso, quasi nel solco di una “ Armata Brancaleone “, dentro un tempo immoto che assomiglia al Medioevo.
I suoi giochi di carte, l’ invenzione sospesa tra quaranta tavole che attendono ancora di essere pubblicate e siliconate, aprendosi a nuove avventure, ad altri appassionati. Nate nel suo piccolo studio del Vomero, illuminato da un unico fascio di luce, un luogo simile alla bottega di un orafo più che all’ atelier di un artista.
Il fascino delle sue grandi tavole, espressioni di un’ epopea : Lucifero nell’ impero dantesco, il Giudizio universale, la straordinaria serie legata ai personaggi dell’ Inferno, Le Quattro stagioni, I Cavalieri dell’ Apocalisse. Opere disseminate oggi nelle collezioni di tutta Italia con i labari e le bandiere offerte ad un vento immobile. Mentre mostri irreali e moderni si affiancano alle pareti scrostate di muri che aprono gli occhi a nuove spelonche, ad altri spazi arcani”.

PIERO ZEVI – (Da Il Denaro del 19 novembre 2021)